L'opinione del fotosub naturalista
al lavoro nello Stretto di Messina
Cari amici lettori, eccomi a raccontarvi delle mie esperienze da un diverso
punto di vista, quello del fotografo al lavoro…
Spesso si parla
di fotografia subacquea facendo riferimento a tecniche di vario tipo, a foto
d’ambiente o macro, ad attrezzature e loro uso adeguato, ma molto raramente si
pensa che dietro una fotografia ben riuscita, in qualsiasi ambiente essa venga
realizzata, c’è qualcosa in più, qualcosa di diverso che caratterizza le
immagini di chi fotografa in natura.
Per
il fotografo naturalista, vero amante della vita nel mare e sulla terra, è la
conoscenza approfondita dell’ambiente, della flora e della fauna che in esso
vive, che fa la differenza nel risultato raggiunto. Nel caso del fotosub
naturalista, le immersioni continue, la conoscenza di quella biologia marina
vissuta, e non solo letta sui libri, la pratica di muoversi in determinati
ambienti e situazioni e la conoscenza di un minimo di etologia di ogni specie,
ovvero del comportamento di un pesce di fronte al fotografo, delle sue reazioni
e delle sue abitudini principali sono armi vincenti per puntare alla
realizzazione di immagini in un certo senso particolari, dove è la natura la
vera protagonista.
Questo è il motivo per cui ho deciso di scrivere qualcosa (dopo vent’anni
trascorsi fotografando prevalentemente la fauna marina mediterranea, di giorno e
di notte, d’estate e d’inverno) che possa essere d’aiuto a coloro che si
avvicinano a questa attività non particolarmente semplice, che richiede una
quantità indefinibile di passione e spirito di sacrificio, oltre che, come
requisito base, la possibilità di immergersi con una certa frequenza e in certi
luoghi.
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Oggi, specie in Mediterraneo, la conoscenza dei siti più interessanti è
diventata il punto di partenza per il raggiungimento dello scopo, visto che
purtroppo si assiste a un progressivo impoverimento degli ambienti e ad una
graduale riduzione della biodiversità.
Poi occorre essere insieme bravi subacquei e bravi fotografi. E infine si devono
fondere le due cose e provare a far qualcosa. Ma per “fare” ciò che intendo,
cioè fotografare la vita nel mare, e non il subacqueo in posa dietro a una
gorgonia o sulle sfondo di tutte quelle foto che vengono poi chiamate
d’ambiente, è necessario conoscere anche “quel qualcos’altro” che è la vita nel
mare, gli esseri che nel mare vivono nuotando o stando a contatto col fondo, o
ancora quelli che si lasciano trasportare dalle correnti…
Solo così si potranno ottenere immagini diverse, a volte uniche e irripetibili.
Questo non significa che le nostre fotografie, per quanto belle, possano essere
utilizzate per lavorare in modo normale.
Un
fotografo professionista, che per esempio lavora vendendo le proprie immagini a
riviste di settore, dovrà combattere con realtà contorte, legate a contratti
pubblicitari e a sistemi che, in un modo o nell’altro, penalizzano non solo il
lavoro svolto ma anche il lettore della rivista, che si troverà a leggere
articoli con foto non belle e contenuti frivoli, per un motivo ormai ben chiaro:
testi e foto vengono pagati molto poco e il materiale fornito dai fotografi è
spesso, di conseguenza, piuttosto scadente. Ma questa è una storia sulla quale è
meglio non dilungarsi…
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Tornando a noi, vediamo invece quali sono, più nel dettaglio, le qualità che
deve affinare un fotografo subacqueo che vogliamo a tutti i costi definire
“naturalista”. Forse basterebbe dire che funziona un po’ come sulla terraferma.
Ci sono appassionati di caccia fotografica che passano mesi in natura con i loro
potenti teleobbiettivi e ci sono cultori del paesaggio che visitano i luoghi
centinaia di volte prima di vederli con la luce giusta per fare realizzare le
immagini che cercano.
Sott’acqua dovrebbe funzionare pressappoco così: chi ama la natura impara a
conoscerla frequentandola, quindi immergendosi di continuo e imparando a
familiarizzare con le attrezzature e il loro uso, in tutte le condizioni
possibili. Ma ricordiamoci che non è un bravo fotografo solo colui che è padrone
della tecnica di ripresa e/o profondo conoscitore dell’attrezzatura che usa, ma
lo è chi, una volta presa confidenza con i propri strumenti di lavoro, li usa
bene per il suo scopo. Si può imparare ad usare i pennelli e a mescolare i
colori frequentando una scuola d’arte, ma non si sarà mai dei veri artisti se
non ci sarà quel non so che di diverso che fa la differenza e che si chiama
“gusto”, quel saper vedere le cose con occhi propri offrendo una interpretazione
della realtà con un taglio del tutto personale e riconoscibile tra tanti. |
Il fotografo con in pugno una maneggevole fotocamera anfibia: la magica Nikonos |
Premesso tutto ciò, verifichiamo alcuni aspetti legati all’azione di ripresa
vera e propria. Fondamentale a tal proposito è la distinzione tra i diversi tipi
di attrezzature e, di conseguenza, i diversi modi di fotografare.
Fino a poco tempo fa si cominciava l’attività con una Nikonos e il suo corredo,
unica fotocamera anfibia esistente, per poi passare, col tempo, a corpi macchina
per così dire “terrestri”, scafandrati in involucri di tipologia e materiali
vari. Tale passaggio veniva considerato una sorta di evoluzione del fotografo.
Per me non è mai stato così, poiché ritengo che i due sistemi siano utili per
scopi diversi; quindi l’uno non sostituisce assolutamente l’altro. Di certo una
macchina scafandrata offre il vantaggio della visione reflex rispetto a una
Nikonos, ma l’ingombro e il dover guardare la scena attraverso il mirino
penalizza molto la fotocamera in custodia, spesso limitante in determinate
situazioni, quando cioè le foto sono realizzabili in meno di un secondo, e
l’attimo fuggente non consente di indugiare.
La
verità è che l’uso di una Nikonos, con il vecchio mirino galileiano e la
necessità di stimare ad occhio le distanze, diventa difficile da usare al
cospetto degli automatismi e delle ampie possibilità offerte dalle macchine
terrestri scafandrate. Tra l’altro la delicatezza di una Nikonos, facile da
allagare se non revisionata almeno una volta all’anno, ha portato all’uso, da
parte dei più, degli scafandri, che tra l’altro si sono evoluti e perfezionati
sempre di più.
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Il fotosub al lavoro con un soggetto statico: una splendida spugna |
E
non abbiamo ancora parlato del digitale, recentemente causa di veri e propri
sconvolgimenti nel modo di operare di tutti noi fotografi. Sono nate così delle
diverse correnti di pensiero: quella dei fotografi che usano ancora la
pellicola, quella dei fotografi “digitalizzati” in toto e, non ultima, quella
dei fotografi che usano pellicola e digitale secondo i casi, sfruttando le
caratteristiche positive dei due sistemi. Personalmente preferisco lavorare
sott’acqua con la cara vecchia pellicola, ancora oggi insostituibile per resa
cromatica e qualità dei risultati.
Nessuna videoproiezione con l’uso di un pc può eguagliare la qualità della
classica proiezione di diapositive, anche se, bisogna ammettere, nel settore
delle stampe fotografiche, il digitale consente di ottenere ottimi risultati.
Bisogna quindi valutare bene, specie se si pensa al costo di una reflex digitale
scafandrata (pari a quello di un’autovettura utilitaria) e al fatto che, dopo
aver investito un capitale, la nostra reflex viene superata e riproposta dopo
poco tempo in una nuova versione, come accade con i pc ormai da tempo.
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Ma
andiamo in acqua e vediamo di operare di fronte a situazioni concrete. Sarebbero
necessarie molte pagine e un vero e proprio corso di fotografia con orientamento
naturalistico, dedicato ai subacquei.
Mi limiterò pertanto a ricordare che la pratica, come sempre, è determinante: in
acqua dobbiamo essere più o meno tranquilli come a casa nostra, nuotare
all’incirca come un pesce, dimenticarci di essere in un ambiente che non è il
nostro e diventare tutt’uno con le nostre nuove appendici (strumenti,
attrezzature varie, ecc.); solo così, con la disinvoltura di un essere
acquatico, potremo concentrare tutta la nostra attenzione sulla ripresa
fotografia. Contestualmente dovremo osservare con cognizione di causa, imparando a
“leggere” tra le pagine del mondo sommerso.
I vari ambienti, con roccia, fango, prateria, detrito, saranno i nostri campi di
lavoro dove cercare i soggetti da isolare abilmente, per dar loro il giusto
risalto.
La
nostra interpretazione della natura sarà evidente nelle immagini e, se saremo
stati bravi, la nostra impronta e il nostro stile saranno senza dubbio
riconoscibili tra tanti. Ma come ci si avvicina a un pesce diffidente, come si
fotografa durante la notte, quando la vita esplode nel buio, e quali sono gli
accorgimenti che un fotosub deve usare nelle diverse situazioni e alle diverse
profondità?
Lo vedremo insieme in un prossimo articolo, dove avremo modo di scoprire che una
conoscenza di base di etologia, ecologia e biologia marina saranno il supporto
giusto, alle osservazioni dirette in natura, per la riuscita di un gran numero
di immagini di forte impatto.
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Il tuffatore
dello stretto
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Un paziente fotografo cerca di inquadrare un
paguro che batte in ritirata con un’attrezzatura per la macro che prevede l’uso
di un telaio inquadratore.
Oggi che avanza la tecnologia digitale il sistema potrebbe sembrare primitivo,
ma i risultati che si ottengono sono ancora notevoli e la diapositiva finale
tiene il confronto con il miglior file digitale. |
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Ancora una volta il fotografo al lavoro con un
soggetto statico. In questo caso c’è tutto il tempo di studiare l’inquadratura e
posizionare il flash nel migliore dei modi. |
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Il tuffatore
dello stretto prova ad inquadrare da molto vicino il ciuffo di uno spirografo.
Gli obiettivi grandangolari con messa fuoco a brevi distanze (pochi centimetri)
sono ideali per le riprese subacquee |
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Il flash illumina un bel soggetto statico:
il cerianto |
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Quando si
usa uno scafandro e due flash si inquadra attraverso il mirino usando una fonte
di luce artificiale (un piccolo faro) posto al centro del sistema. |
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Il tuffatore
dello stretto in decompressione dopo un’immersione dedicata alla ripresa
fotografica con due apparecchi anfibi, ognuno con un suo flash in uso a mano
libera.
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Francesco
Turano
www.colapisci.it
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