Il relitto in
giallo
Sul vapore di Cannitello, nel cuore dello stretto
Molti si misero a ridere,
altri storsero il naso, quando, nel 1995, ebbi l’idea di collegare con una
cima la prua di un noto relitto dello Stretto di Messina con uno dei
tanti corpi morti giacenti sul fondo, a soli tre o quattro metri di
profondità e a pochissimi metri dalla battigia; operazione possibile solo grazie
alla breve distanza esistente tra prua del relitto affondato e linea di costa.
Fortuna volle che all’epoca, essendo socio fondatore di un club di subacquei
(quei pochi che avevano pensato di cominciare a vivere il mare senza
necessariamente dover andare a pesca), riuscii a convincere alcuni amici a
mettere in pratica le mia idea, al solo scopo di garantire un appiglio di
emergenza a coloro che, colti di sorpresa dalla corrente durante la delicata
fase della risalita dal relitto, si fossero trovati in difficoltà nel
raggiungere le quote per la decompressione.
Quando
si parla di relitti dello Stretto di Messina, il primo a venirmi in mente è
sempre quello di Cannitello, il relitto di un vapore sconosciuto,
probabilmente affondato durante la prima guerra mondiale e giacente in
posizione capovolta e inclinato a formare un angolo di circa trenta gradi con la
linea di fondo.
Cannitello è un borgo costiero con le case costruite praticamente sulla
spiaggia, subito a nord di Villa San Giovanni, in provincia di Reggio Calabria.
L’idea di posizionare la sagola di sicurezza proprio qui nasce dal fatto che la
forte corrente,
non di rado, crea problemi tutt’altro che trascurabili ai subacquei, non
tanto sul fondo, dove lo stesso relitto funge da barriera fisica di protezione
dalla forza della corrente, quanto in risalita, dove il fondale piatto e
ciottoloso non offre ne appigli ne protezione ai notevoli spostamenti di
masse d’acqua, sovente improvvisi e pericolosi persino per la balneazione
(figuriamoci per l’uomo immerso).
La giornata dedicata alla posa del sagolone, ancorato poi con una robusta catena
alle due estremità, la ricordo ancora ed è fotograficamente documentata.
Oggi,
dopo molti anni, i subacquei sanno bene che possono fare affidamento su una cima
di sicurezza, anche se completamente coperta di alghe.
Ciò non significa che è possibile però immergersi con la corrente senza
calcolare bene l’ora di stanca, cioè la pausa tra una corrente e l’altra,
che da spazio a quei lunghi momenti di relativa tranquillità. Si commetterebbe
in tal caso un grave errore, sottovalutando correnti pericolose per le quali
talvolta neanche la cima può essere d’aiuto.
Ma
non è della sagola di sicurezza che voglio parlarvi in questa sede ma del
relitto, dell’ambiente che si è creato e della straordinaria biodiversità
che ospita.
Nulla posso narrarvi invece della storia della nave e del suo
affondamento, ancora oggi ignota e avvolta dal mistero.
Biologicamente, quando ci si immerge sul relitto di Cannitello è come
affrontare un’immersione in grotta o comunque in ambienti in ombra
caratterizzati da una dominante presenza di una fauna
sciafila (amante del buio); fauna dell’oscurità che si mescola però a
un ricco campionario di diverse specie di pesci e a molti invertebrati e
alghe di abitudini decisamente opposte (amanti di luce e acque movimentate), che
popolano contestualmente le strutture della chiglia e dello scafo rivolto verso
la superficie.
Nel complesso un ambiente quindi molto ricco e diversificato,
nelle sue molteplici sfaccettature.
Le immersioni che si possono fare sono quindi molte, con percorsi alternativi,
al buio e alla luce.
Immergiamoci insieme e scopriamo, attraverso l’alternarsi delle diverse zone, le
diverse forme di vita e gli ambienti che avremo la possibilità di osservare,
usufruendo quasi sempre di ottima visibilità (grazie alle correnti).
Per capire quali e quanti percorsi possiamo affrontare occorre idealmente
immaginare il modo in cui il relitto è posizionato sul fondo; un fondale in
discesa verso l’abisso che raggiunge rapidamente i 50 metri di profondità a
neanche cento metri dalla spiaggia.
Il relitto, come avevo
anticipato, è capovolto e inclinato su un lato, con aperture poste tutte
sul lato nord, il lato dove l’inclinazione ha lasciato ampio spazio per
l’accesso ai vari locali interni.
Essendo spezzato in due tronconi, orientati in modo diverso (il
primo troncone forma una diagonale con la linea del litorale mentre il secondo è
invece perpendicolare alla stessa linea), con la prua verso riva e la poppa
verso il mare, è già conveniente considerare un’immersione sul primo troncone,
tra i 22 e i 35 metri, e un’immersione sul secondo, tra i 36 e i 52 metri.
Ma
perché ho voluto definire questo vapore affondato come il “relitto in giallo”?
Presto detto.
Tra le numerosissime forme di vita che hanno colonizzato le strutture della
vecchia nave predomina una madrepora gialla;
si tratta di Leptosammia pruvoti.
I polipi di questa bella madrepora, ben distinti uno dall’altro (non
coloniali) ma “residenti” uno vicino all’altro, hanno coperto intere parti
dello scafo.
Il risultato di questa fitta copertura a “fiorellini gialli” è uno spettacolare
contrasto cromatico tra il giallo brillante, che decora e accende le lamiere di
molti angoli in ombra o completamente bui, e l’azzurro di sfondo, osservato
dall’interno di questi ambienti cavernosi.
Il giallo e l’azzurro sono quindi protagonisti di molti scorci che fanno di
questa immersione su relitto una delle più entusiasmanti dell’intero Stretto di
Messina.
Facciamo un tuffo insieme e cerchiamo di fare un’ideale visita completa, lunga
quanto basta e senza preoccuparci di tempi di permanenza e profondità
(un’immersione di fantasia…).
Scendiamo comodamente
in acqua da terra,
superando una breve spiaggia con di fronte la punta della Sicilia (splendido
panorama).
Già osservando la superficie del mare si intuisce l’andamento del fondale
sottostante: dopo un breve tratto di bassofondo, giusto una manciata di metri,
il blu più cupo segnala l’inizio della vertiginosa discesa che caratterizza i
litorali di questo braccio di mare.
Mettendo la testa in acqua avremo conferma di ciò all’istante e inizieremo la
nostra immersione scivolando lungo questo intrigante pendio di ciottoli
ricoperti di alghe, con qualche gorgonia (Eunicella
singularis o Eunicella cavolinii)
e qualche spirografo sparsi qua e là.
In un paio di minuti si raggiungono i 20 metri di profondità e si vede la
prua del relitto che emerge dalla sabbia del fondo: la chiglia della vecchia
nave sembra il dorso di un cetaceo quando affiora sulla superficie del mare; il
relitto si staglia nel blu che l’avvolge e contrasta col fondale più chiaro che
l’accoglie da tempo, custodendo e trasformando, ogni giorno, un sempre nuovo e
movimentato ambiente di vita.
Già sulla prua e ai suoi
lati è frequente incontrare gruppi si giovani saraghi fasciati, insieme ad
allegre boghe ed ai primi assembramenti di rosee castagnole. Ogni centimetro di
scafo è coperto in questo suo tratto iniziale da spugne ed alghe; sono
fitte, addossate, non lasciano spazi.
Se togliamo lo sguardo dall’insieme e concentriamo l’attenzione su una singola
sugna scopriremo altra vita: un microcosmo fatto di piccoli nudibranchi blu
striati longitudinalmente (sono lunghi un centimetro), tutti insieme
appassionatamente a gruppi di cinque o dieci su una singola spugna.
Incredibile!
Tenendo la fiancata del relitto a sinistra, una volta doppiata la prua,
scendiamo verso la zona centrale del nostro itinerario subacqueo, nel punto in
cui si separano i due tronconi principali.
Qui ampi squarci invitano ad affacciarsi al di sotto dello scafo, dove
decideremo se continuare a scendere verso la profondità, seguendo la galleria
principale che ci porta verso poppa e poi sull’elica, oppure soffermarci in
un antro a fondo cieco posto al centro della nave o ancora nella
galleria del primo troncone, che ci conduce dall’altro lato del relitto e
che, tra tutte le cavità che si sono create, è la più ampia oltre che sita alla
minore profondità. Questi i tre ambienti principali del vecchio relitto
lungo probabilmente un centinaio di metri, una lunghezza oggi ridotta dalla
posizione dei due tronconi accavallati nel loro punto di contatto.
Iniziamo
a percorrere uno degli ambienti individuati, la galleria principale,
accompagnati dal bagliore di una luce avvolgente, di un azzurro incantevole, che
filtra dalle fessure della struttura portante dello scafo; luce che scendendo
proviene quindi da destra lasciandoci al buio tutto ciò che si trova sopra la
nostra testa e alla nostra sinistra.
Con l’aiuto di una buona fonte di luce artificiale avremo modo di ammirare tutti
quegli invertebrati che hanno nascosto e avvolto il ferro: dalle spugne ai
molluschi, dagli anellidi agli echinodermi, dai tunicati ai celenterati.
E poi i pesci:
grosse cernie scaltre che ci lasciano appena il tempo di vederle prima di
infilarsi in antri inaccessibili, lente musdee, sciarrani e poi
perchie “extra-large” sono le tipiche presenze delle parti nell’ombra.
Lungo la galleria, se ci muoviamo con cautela, possiamo cogliere di sorpresa
quei pesci che si trovano all’esterno del relitto e che non si saranno accorti
della nostra presenza grazie alla penombra in cui siamo avvolti; è il caso di
grossi saraghi pizzuti o maggiori, che non di rado sono presenti in questo
particolarissimo ambiente dove di certo trovano di che sfamarsi.
Che belli questi sparidi argentati: ti passano vicino fin quando non ti sentono,
poi accelerano e decidono se mantenere le distanze o dileguarsi quando
percepiscono la tua presenza, le vibrazioni che emetti.
Ma tu hai tutto il tempo di vedere la sagoma di un pizzuto e la sua livrea, o i
denti sporgenti di un maestoso sarago maggiore.
Poi
arrivi alla fine del corridoio che ha attraversato tutto il secondo troncone
del relitto al suo interno e ti ritrovi in una specie di anticamera
finale, più ampia, da dove filtra più luce, dove l’atmosfera è magica:
guardi fuori e le castagnole rosa (Anthias anthias)
sono talmente numerose e fitte che a stento riesci a distinguere il profilo
delle ultime strutture di poppa, con l’elica parzialmente insabbiata.
Non di rado capitano pesci di passo (per lo più ricciole, altre volte
palamite) o ancora saraghi, grossi fasciati o maestosi saraghi maggiori.
I fasciati sempre numerosi e a mezz’acqua, i maggiori schivi, solitari e
sfuggenti in prossimità del fondo.
E poi le cernie, quante cernie ho potuto vedere, negli anni, guizzare via
dalla poppa verso la profondità, come se più giù, forse a 80 m o forse ancora
più avanti, ci fosse una scogliera abitabile da loro popolata.
Una volta allo scoperto, terminato il percorso in ombra, eccoci avvolti
dall’incantevole scenario di una delle parti più belle di ogni relitto: l’elica
e, quindi, la poppa.
La luce è notevole, nonostante ci si trovi a circa 52 m di profondità,
e l’acqua è sempre limpidissima. Ciò che rende questo relitto affascinante è, a
mio avviso, proprio l’insieme dei colori delle forme di vita che lo popolano e
dell’acqua sempre pulita.
Non è facile trovare un relitto con queste caratteristiche.
Risaliamo adesso
esternamente allo scafo, percorrendo il punto di confine tra il relitto e la
sabbia, dove pezzi di nave son caduti sul fondo in seguito al ribaltamento e
dove si è creato un ambiente di transizione e di passaggio tra zone in luce e
zone in ombra, che è congeniale a molte specie animali.
Enormi triglie smuovono il sedimento con i loro lunghi baffi bianchi,
qualche cicala si nasconde ancora mimetizzandosi alla perfezione tra le
incrostazioni e le protuberanze delle abbondantissime spugne, soprattutto
rognoni di mare (Chondrosia reniformis).
Ancora una volta è l’argento di banchi di pesce che avvolge il subacqueo
attonito: mennole e zerri sembrano festeggiare chissà cosa con la loro
frenesia, mescolandosi con le boghe e poi ancora a piccoli saraghi.
Ricordo
una volta, quando fui circondato da giovani ricciole, curiose e festanti
anch’esse. Quando i pesci si muovono insieme, nuotano freneticamente e la
corrente li sposta un po’ agevolandogli il gioco già vivace, si assiste a
qualcosa di unico, a uno spettacolo naturale a dir poco emozionante.
Riportando lo sguardo sul fondo, più volte distolto dai pesci in acqua libera,
raramente si incontra qualche polpo di notevoli dimensioni. Raro è anche l’incontro con l’astice, nobile crostaceo un tempo più
presente, anche se in misura modesta.
Molti sono invece paguri e piccoli granchi, i maggiori rappresentanti dei
crostacei.
Occasionalmente si scova qualche grossa murena, ma le anfrattuosità sono
talmente articolate, comunicanti e ampie che è difficile poter osservare
accuratamente la fauna rifugiata nei propri antri, salvo casi sporadici.
Giungiamo quindi, risalendo lungo il secondo troncone, nuovamente alla zona
centrale.
Ci troviamo in una delle zone più articolate e ricche di scorci, dove si è
probabilmente verificata l’esplosione delle caldaie e dove si creano, tra le 10
e le 12 del mattino, le quinte ideali per il fotosub che ama sfruttare la
luce del sole quando si insinua tra le fessure di quelle “finestre verticali”
(le fessure create dalla struttura portante dello scafo) rendendo piacevole lo
sfondo di immagini altrimenti cupe.
Qui ritorniamo all’ombra e
diamo uno sguardo ad un antro centrale a fondo cieco, un tempo la sala
macchine della nave, dove è ancora visibile l’albero motore.
Un’alta
concentrazione di madrepore gialle ricopre la superficie metallica rendendo
l’atmosfera meno tetra di quanto possa sembrare, inizialmente, penetrando in un
ambiente dominato dal buio.
Ma il fascino della scoperta e la curiosità vincono sull’iniziale sensazione di
smarrimento che, in genere, coglie il subacqueo alle sue prime esperienze di
penetrazione in un relitto.
Rimane comunque necessaria una buona dose di prudenza ed esperienza,
onde evitare di incappare in pericoli senza esserne consapevoli.
Avanzando nell’oscurità, dotati ovviamente di un buon faro, è necessario avere
un perfetto controllo del proprio assetto e galleggiabilità, per non
urtare alcuna sporgenza metallica, guardarsi bene intorno durante l’avanzamento,
per non infilarsi al di sotto di parti mobili o pericolanti, e non
azzardare mai a intrufolarsi in ambienti angusti per raggiungere e osservare da
vicino un pesce o qualcos’altro.
La
visita delle zone interne del vapore capovolto è emozionante e ci svela i
segreti della biodiversità e dell’adattamento al buio.
Spugne abitualmente di colore grigio sono in questo caso di un bel bianco
candido e persino ascidie solitamente rosse, come
Halocinthia papillosa, diventano quasi
bianche nel buio, mantenendo solo poche sfumature del rosso che le
caratterizza in genere.
Nell’oscurità il colore non serve!
Tante sono le spugne ramificate che disegnano forme strane, formando “sculture”
dai contorni morbidi e dai colori sempre molto blandi.
Lasciato il blocco centrale del relitto e le sue parti più buie, non ci rimane
che dare infine uno sguardo al primo troncone, quello con la galleria
in assoluto più ampia.
Anche qui c’è molto da vedere e il tempo non basta mai.
Ma la nostra immersione fantastica ci consente ancora tutto il tempo che
vogliamo, navigando sott’acqua alla scoperta della vita nel mare.
L’antro che visitiamo consente il passaggio di molti subacquei
contemporaneamente, tanto è largo; sembra quasi di trovarsi all’interno di una
enorme grotta passante, la cui sezione ricalca il profilo dello scafo che,
capovolto, ci sovrasta.
Nuvole di piccoli pesci danzano costantemente nei due ingressi, sempre attratti
dal punto di transizione tra luce ed ombra, e una volta al buio, la torcia ci
svelerà tutti i colori di quegli invertebrati incrostanti delle lamiere.
Spettacolare è la visione delle spugne in riproduzione, quando
sembrano addirittura “gocciolare” verso il basso, formando lembi penzolanti
a forma di grandi gocce appese a un filo…
Perlustriamo i punti di
contatto tra lo scafo e la sabbia del fondo, alla ricerca di qualche pesce.
Piccoli ghiozzi leopardo non sfuggono all’osservatore attento e
ancora musdee, giovani e timide, nuotano con la loro solita calma. Dirigiamo
verso l’uscita, l’unica che conduce al lato opposto del relitto, dove lo scafo
scompare sotto la sabbia del fondo.
Se c’è corrente uscire non sarà semplice; se tutto è tranquillo avremo ancora la
possibilità di vedere, tra le spugne e le alghe, quelle colorate e corpose
stelle di mare, le cui braccia hanno sezione tubolare e il cui colore è il rosso
carminio, che qui tende sovente al fucsia e che senza luce artificiale ci appare
di un bel viola intenso. Sono stelle meravigliose, grandi e carnose, tra gli
esemplari più belli mai visti della specie Ophidiaster
ophidianus.
E’
tempo di risalire. Potrei ancora continuare nella perlustrazione del relitto, ma
finirei per scrivere un libro sulle diverse esperienze vissute in immersione tra
queste amate lamiere.
Risalendo, molti idrozoi colonizzano il fondo insieme a qualche piccola
gorgonia e in tale microambiente sono sparsi piccoli nudibranchi come
Flabellina affinis e
Hervia peregrina.
Seguo la cima che mi porterà a pochi metri di profondità, quella cima oggi
colonizzata dalle alghe e che sempre mi riporta alla mente a una dozzina d’anni
fa, quando fu poggiata e agganciata a dovere.
L’ora stanca è perfetta, ma il ricordo delle correnti che a volte ti
strappano la maschera dal volto e non consentono alle bolle di scarico
dell’erogatore di salire in superficie è indelebile e si riallaccia ad
esperienze vissute.
Una volta a sei metri, tra i piccoli scogli sparsi e le pietre del fondo mi
muovo avanti e indietro per ingannare il tempo richiesto per la decompressione.
-
Qui trovo simpatiche bavose e tanti stupendi gamberetti, come
Gnatophyllum elegans e
Lismata semicaudata.
Un anno la fascia litoranea, intorno ai 3/5 m di profondità, fu colonizzata da
un’alga straordinaria, a testimonianza di ciò che un tempo avveniva con
regolarità. L’alga è la laminaria, la gigante e bella laminaria, con le
sue lunghe e flessuose foglie che la corrente agita a ritmi cangianti.
Che spettacolo!
E tra le laminarie i labridi: tordi multicolore e donzelle, tutti
insieme, ad armonizzare un ambiente dove i minuti per la deco finiscono ma non
hai ancora voglia di alzare la testa fuor d’acqua e riemergere. |