Il relitto con le gorgonie
In una notte tempestosa di inizio secolo,
all’ingresso di quel pericoloso braccio di mare noto come Stretto di Messina,
due grandi piroscafi entrano in collisione di fronte l’abitato di
Punta Faro, estrema propaggine
settentrionale del versante siculo del pericoloso canale, nota dimora di due
mostruosità come Scilla e Cariddi.
Quella della collisione tra le navi è, in realtà, solo un’ipotesi che oggi nasce
dalla vicinanza dei relitti di due navi, che giacciono a poca distanza uno
dall’altro ma a profondità diverse, proprio di fronte la chiesa di
Faro, a nord di Messina.
Il piroscafo che riposa alle profondità più
modeste, il cui nome è Amerique, è rimasto a
lungo arenato sulla linea di riva; negli archivi storici e' possibile reperire
qualche fotografia d'epoca che riprende il relitto ancora incagliato.
L'erosione provocata dai marosi e l’azione delle
correnti ha poi fatto scivolare il relitto verso il basso, non abbastanza perché
questo non cedesse però il suo ferro alla patria nel periodo del fascismo.
Oggi quel che resta del relitto ci appare come un insieme di lamiere, con lo
scafo completamente devastato dalle benne, ma e' possibile intravedere ancora la
struttura della chiglia ed una caldaia, che fortunatamente mantiene ancora una
certa fisionomia.
Biologicamente, le lamiere contorte offrono riparo a poche
cernie, qualche anguilliforme e in genere a
un po’ di pesce stanziale. Ma il bello è dato dalla presenza di una notevole
varietà di colorati nudibranchi.
Ancora
una volta, quindi, le sponde dello stretto offrono l’opportunità di visitare un
paio di incantevoli relitti partendo comodamente da terra.
In verità, qui il relitto che interessa di più non è l’Amerique, che a Messina
chiamano “il relittino” non tanto riferendosi alla
sua dimensione originale, quanto alla ridotta superficie del fondo oggi occupato
da ciò che resta del gran bel piroscafo (e per distinguerlo dal “Relitto”
dell’altro piroscafo); quel che intriga i subacquei è infatti, come dicevamo, il
relitto ancora sconosciuto, oggi chiamato erroneamente
Solferino, ma in realtà non ancora identificato.
La nave giace integra e in posizione di navigazione con la prua verso terra e la
poppa verso il mare aperto, adagiata su un fondale come al solito in forte
pendenza al punto che la prora è situata tra i
trentacinque (32 m sul ponte) e i quaranta metri mentre la poppa è a quasi
settanta metri.
Il ponte di comando, a centro nave, è a circa 48 metri, profondità che
rappresenta la quota direi minima dell’immersione, tanto da considerare
l’esperienza subacquea particolarmente impegnativa. Le difficoltà di questa
perlustrazione non sono però legate alla sola profondità ma, com’è facile ormai
intuire quando si parla dello stretto, alle correnti,
forti e pericolose, molto fastidiose se si parte da terra e a terra si deve
tornare (è consigliabile infatti l’uso di un natante d’appoggio anche se il
relitto non è lontano dal bagnasciuga).
All’inizio
degli anni novanta, quando il turismo subacqueo esplodeva un po’ in tutto il
Mediterraneo e lo Stretto di Messina iniziava ad essere meta di subacquei
provenienti da ogni dove, il relitto di quella nave sconosciuta veniva
perlustrato e pubblicizzato sulle riviste di settore grazie ad alcuni diving e
alla produzione di materiale per la carta stampata.
Purtroppo però, alle immagini ogni tanto capitava di veder abbinate notizie
scritte un po’ in fretta, che portavano alla nascita di equivoci di varia
natura.
Nel caso di questo relitto venne fuori un nome, non a caso “Amerique”; ma
l’errore di attribuire tale nome al relitto sconosciuto nasceva proprio dalla
presenza nello stesso sito, a poca distanza, dell’altro relitto, sconquassato e
giacente oggi tra i sei e i ventotto metri di profondità, sempre su un fondale
scosceso e sempre con prua a riva e poppa a fondo.
Fatto sta che, nel 1995, la White Star pubblicò la sua “Guida ai Relitti del
Mediterraneo” con due errori sui nomi di due relitti dello Stretto di
Messina: la Laura C, in
Calabria, veniva scambiata per la Lauro C, e il piroscafo sconosciuto di Torre
Faro, in Sicilia, veniva scambiato per il piroscafo Amerique. Questo solo per
chiarezza nei confronti del lettore…
Fatta questa necessaria introduzione, andiamo finalmente sott’acqua alla
scoperta di questa bellissima barriera di ferro, un vera e propria diga sommersa
investita dalla corrente ogni giorno, ogni ora, ogni minuto e abitata da
un’incredibile quantità di invertebrati e pesci.
Sto
parlando del relitto dello straordinario piroscafo che ho voluto, non a caso,
definire il relitto delle gorgonie, poiché
è l’unico dello stretto ad essere colonizzato da un discreto popolamento di
ramificazioni di Paramuricea clavata sulla
fiancata di dritta.
Immergendosi da riva, si scende lungo un pendio detritico e si punta dritti vero
il largo, lasciandosi alle spalle la chiesa che rappresenta il nostro principale
riferimento. Navigando sott’acqua, vedremo gradualmente diminuire la pendenza
del fondale; in breve apparirà la sagoma imponente del relitto, che sembra quasi
voler navigare verso terra ma la cui corsa si è arrestata ormai da tempo.
La sensazione che si prova trovandosi di fronte la prua di questa nave non è
comune: è un po’ come la terrificante sensazione di essere faccia a faccia con
un grande mercantile in navigazione, abbastanza sotto e abbastanza vicino da
sentirti quasi travolto dalla nave che avanza…
Sembra evidente, ma ci tengo a sottolinearlo, che non è possibile vedere
l’intero relitto in una sola immersione.
Il percorso più impegnativo, che prevede di portarsi fino ai 65 m, consente di
sbirciare le strutture di poppa, dove non c’è più l’elica ma solo il suo asse.
Dopo uno sguardo in profondità, risalendo la murata di dritta avremo la
possibilità di ammirare il pezzo forte di questa nave affondata, cioè le
gorgonie.
Se la limpidezza dell’acqua si presta è possibile cercare di inquadrare il ferro
coperto da gorgonie, tappezzato dai celenterati così come accade su una parete
rocciosa, per ricavare una foto di grande effetto ma sempre di difficile
esecuzione.
Direi però che la parte più divertente della
perlustrazione è quella del ponte e delle stive che, nonostante siano per lo più
insabbiate, offrono spettacoli di rara bellezza per l’accostamento cromatico
delle numerose spugne, cresciute sulle lamiere, con la sabbia bianca che le
riempie.
Girovagando tra le stive non troviamo un gran movimento di pesci per la mancanza
di rifugi ben fatti (la sabbia ha coperto molto) ma i contrasti cromatici di una
vita incrostante fuori dal comune meritano più di una semplice occhiata
superficiale.
Spesso si ricorre a un paragone abbastanza
scontato per dare idea dei colori che la natura offre nei suoi vari ambienti e
nei sui molteplici aspetti: si fa cioè riferimento alla tavolozza di un artista,
con le sue macchie e i colori affiancati e mescolati casualmente.
Nel caso del ferro di questo relitto sono costretto ad utilizzare ancora una
volta lo sfruttato paragone perché le spugne
incrostanti, come sono solite fare quando ne hanno la possibilità, creano
delle tavolozze di colore pazzesche.
Così facendo il risultato finale è, come dico sempre quando ammiro il lato bello
dei relitti sommersi, una nave nuovamente in vita, oasi di biodiversità
peculiari; non più un “cadavere metallico” che giace sul fondo, non più soltanto
relitti a riposo a ricordo di una storia passata, ma vita, una nuova vita che il
mare ha il potere di donare, relitti come scrigni colmi di sorprese per chi sa
osservare e soprattutto rispettare il mare.
Il relitto
con le gorgonie
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