Colapisci
L'uomo che diventa pesce per scelta  o  per  necessità

Il tuffatore dello Stretto
 


Gli scogli di Aurelio

La giornata è buona. Il tempo non è proprio stabile ma non sembra nascondere brutte sorprese: mare quasi calmo, corrente (scendente) in attenuazione, cielo nuvoloso, aria fresca ma non fredda, sono le caratteristiche di questo lunedì sette gennaio, giorno in cui faccio il mio primo tuffo del 2008.
Ovviamente è lo Stretto di Messina il luogo prescelto, sponda calabra; partiamo in gommone da Cannitello e dirigiamo alle pendici del Monte Scrisi, che si snodano tra lo sbocco del torrente Santa Trada e Punta Pacì.
Ho le “branchie” asciutte (un po’ di laringo tracheite trascurata) e non vedo l’ora di inumidirle un po’ e riprendere i tuffi nel blu come si deve. Grazie alla disponibilità di Marcello, mio amico e compagno d’immersione, c’è la possibilità di perlustrare e studiare quel bel tratto di mare che segna l’inizio della Costa Viola, un luogo dove le fasi lunari e le correnti di marea sono un fattore da tenere in alta considerazione per immergersi con una certa tranquillità e lasciarsi trasportare dalla magia (e non dalla corrente) di ambienti sommersi straordinari.

 

Gettiamo l’ancora poco prima di Punta Pacì, proprio sotto la struttura relitto di quell’albergo che aveva disegnato il buon Aurelio La Face, grande pioniere nel mondo della subacquea reggina e recentemente scomparso.
L’albergo, mai completato, riposa sugli scogli che cadono in mare su un fondale sabbioso di una decina di metri.
Partendo da questo ampio pianoro di sedimento grossolano e dirigendo verso il largo in direzione nord-est si incontrano una serie di scogli di medie dimensioni a partire dai 20-25 m di profondità.
I massi si fanno via via più grandi man mano che si scende in profondità e occupano una porzione di fondale abbastanza ampia da potersi inventare più di un itinerario sommerso.

Dirigo subito sul primo scoglio significativo, precedendo quel tanto che basta i miei due compagni d’immersione per scattare alcune foto senza interferenze.
Vedo subito un polpo affacciato alla tana: la situazione è alquanto curiosa. Il polpo mostra i suoi tentacoli raccogliendosi all’interno di una piccola cavità, incorniciato da un oloturia e da piccole cataste di candidi gusci di molluschi bivalvi, testimonianza tangibile dei pasti consumati. Nel mostrare le sue “temibili” ventose, il polpo mette in luce la conchiglia vuota di una ciprea, aderente a un tentacolo.
La scena è simpatica e l’insieme merita più di uno scatto.
Nel frattempo i miei compagni mi hanno raggiunto e superato: lascio quindi il simpatico polpo al suo da fare e proseguo verso la profondità insieme agli altri.
Ecco finalmente i primi scogli popolati da splendide paramuricee bicolore.
L’acqua è fresca e conto di vedere qualcosa, ma per i primi minuti appare solo qualche sarago solitario. Mi impegno nel realizzare qualche scatto alle gorgonie e nel riprendere confidenza con un fondale che non frequentavo ormai da qualche anno.
Mi rendo conto che il verde della caulerpa fa ancora la sua figura, ma l’elemento che più mi colpisce sono le spugne arancio, quelle bellissime spugne ruvide al tatto che ricoprono vasti fazzoletti di roccia alternandosi alle gorgonie.

Direi quasi che la caratteristica di questo luogo sono gli scogli tondeggianti coperti da gorgonie e da queste spugne tipiche dei fondali della Costa Viola spazzati dalle correnti.
Spugne simili a tappeti in velluto con escrescenze bitorzolute, splendide con le loro tinte calde che magicamente contrastano con gli azzurri dominanti a certe profondità.
Siamo tra i quaranta e i cinquantacinque metri, con acqua limpida ma con cielo irregolarmente nuvoloso e quindi non molta luce. L’atmosfera ovattata e i colori smorzati rafforzano le sensazioni che si provano quando ci si ritrova avvolti da tali scenari mozzafiato. Con gli occhi pieni di tutto quel ben di Dio di vita incrostante iniziamo una lenta e tranquilla risalita, frenati appena da una bava di corrente che contrasta il nostro procedere.
Ancora scogli sparsi di piccole dimensioni e immense distese di Caulerpa taxifolia, di un verde intenso come sempre.
Un enorme macigno rotondeggiante si presenta con la sua sagoma in controluce e ci invita a una perlustrazione del suo lato in ombra, il più riservato: un ricco insediamento di madrepore arancioni e una serie di piccoli anfratti con altre madrepore e anellidi policheti incornicia le piccole abitazioni di pesci quali blennidi, labridi e serranidi di piccola taglia.

Ritorno a nuotare facendo il filo al fondale, tappezzato dalle foglie della caulerpa, quando all’improvviso appare, ben mimetizzato, il protagonista della nostra immersione odierna: verde quasi come l’alga che ricopre il fondo, inclinato su un fianco, immobile ed evasivo negli atteggiamenti, un grosso esemplare di Zeus faber tenta di passare inosservato disponendosi il più possibile di taglio rispetto al mio punto di vista.
Contemporaneamente al San Pietro vedo, dietro il pesce, un polpo sollevarsi dal fondo e nuotare verso un altro sito poco distante; per un attimo penso a un collegamento tra la presenza del pesce e quella del mollusco, ma poi mi dissocio dall’idea e mi concentro sull’osservazione del mio “pupillo”, sperando di riuscire a farlo posare a dovere per delle foto.

Faccio un giro largo intorno al pesce, ormai in fase di mutamenti cromatici, in modo da dispormi frontalmente rispetto al suo prominente muso e, contestualmente, cerco di frapporre il pesce tra me e i compagni d’immersione che intanto stanno avvicinandosi.
Realizzo i primi scatti e faccio un cenno d’intesa a Marcello, che fortunatamente mi vede e, in pochi secondi, inquadra il bel pesce. Il San Pietro posa volentieri per delle foto, sfoggiando tutte le striature della sua esaltante livrea, con Marcello che lo osserva, nuotando e descrivendo lenti cerchi su se stesso.
D’un tratto sembra poi irritarsi del mio operare disinvolto e della mia eccessiva vicinanza e all’improvviso inizia un nuoto rapido e deciso, che mi consente di seguirlo col fiatone solo per alcuni metri.

Saluto il San Pietro e mi dirigo soddisfatto verso quote idonee alla decompressione di questa bella immersione, che mi a portato fino a 52 m senza problemi di sorta.
Ma le sorprese non si esauriscono: mi accorgo stupefatto che un sornione scorfano rosso prende quasi il sole su uno scoglio intorno ai nove metri di profondità. Avendo ancora una discreta manciata di scatti nel corpo macchina della mia fedele Nikonos, non esito a terminarli inquadrando il fotogenico pesce in pose diverse.
Lo scorfano posa tranquillo, quasi certo, dopo i primi scatti e i primi indugi, dell’assenza di pericolo. E io godo della sua disponibilità, portando il mio fantastico 15 mm a una spanna dal suo muso; cerco ancora di sfruttare quest’attrezzatura fotografica, compagna di una vita, sapendo che presto dovrà andare in pensione per sempre, per lasciare il posto alle nuove tecnologie incalzanti e inarrestabili, alle quali non possiamo sottrarci per forza di cose, ma possiamo solo resistere il più possibile e con le quali, comunque, dovremmo convivere senza subirle…

 

 

Francesco Turano

 

 

 

 

www.colapisci.it