La vallata delle grandi pietre
Tra cernie e trigoni
Il mare è blu.
La corrente diretta a sud, cosiddetta scendente,
sembra attenuarsi per concederci una visita al mondo sommerso di un mare
frequentato da pochi subacquei, il turbolento mare ai piedi del traliccio detto
Pilone, alle pendici del monte
Scrisi, che un tempo portava corrente in
Sicilia; ma è uno scoglio a panettone, che si stacca tra gli altri della frana
di roccia tipica di queste pendici, il nostro punto di partenza per non
sbagliare itinerario.
Qui la corrente non da spazio all’improvvisazione e non puoi permetterti alcun
errore.
Sott’acqua nello Stretto, in questo tratto di costa rocciosa che precede Scilla,
detta anch’essa Costa Viola, la preparazione fisica
e psicologica è determinante per la riuscita di un tuffo nel blu.
Da vecchi e abituali frequentatori del luogo ci tuffiamo e siamo subito
sott’acqua, dove tocchiamo il fondo a circa sei o sette metri dalla superficie.
La corrente ci sposta verso sud, è scendente: si percepisce ancora bene, cosa
che rinnova sempre quel timore reverenziale verso il regno del mare; la paura è
sempre con noi e di conseguenza iniziamo a scendere con cautela verso il vallone
di ghiaia prospiciente la franata che si affaccia frastagliata tra i 15 e i 20
metri di profondità.
Il pendio, diversamente da quanto accade solitamente nello
Stretto di Messina, si addolcisce intorno ai
trenta metri per diventare una valle, la vallata delle
grandi pietre. Per guadagnare fondo dobbiamo pinneggiare più del
solito e allontanarci da terra, consolati dal fatto che la scendente è quasi
svanita e che sulla testa c’è un barcaiolo fidato.
Qui il fondale
può idealmente dividersi in tre fasce:
-
la prima,
dalla superficie ai 15/20 metri di profondità, con frana di roccia che
poggia a 6/8 metri (con tane e cunicoli interessanti) e poi con grandi
scogli isolati, tipo panettoni, che si alternano ad una scogliera più bassa
a sua volta alternata a tratti di ghiaia e pietrisco coperti di alghe fino
ai venti metri;
-
la seconda,
tra i 20 e i 35 metri, che rappresenta la fascia con quel pendio che
diminuisce la sua picchiata, assestandosi tra i 30 e i 35 metri di
profondità e riprendendo a scendere poi verso i 45/50 molto più al largo;
-
la terza
infine, quella della scogliera a paramuricea,
piuttosto varia e con massi disposti a formare catene rocciose parallele tra
loro e più o meno perpendicolari alla riva, con profili suggestivi tipo
“creste di gallo”, che si stagliano con le loro silhouette scure in mezzo
all’azzurro.
Scogliere
mozzafiato, coperte di paramuricee bicolore ma anche da alghe calcaree,
tunicati, briozoi e poriferi, in un paradiso sommerso che solo questo mare sa
proporre in modo così violento. Peccato solo che il pesce grosso è qui
intimorito e, tra cernie e trigoni ancora abituali, è difficile avere incontri
ravvicinati, ma solo visioni che sembran quasi miraggi.
Ma ci si riempie gli occhi con grandi pesci pappagallo e nuvoloni di ingenue
occhiate e dorate salpe.
L’acqua è
limpida e superato il termoclino sembra di entrare in frigorifero: brrrr… mamma
mia che differenza, ci saranno quasi dieci gradi in meno. Guardo gli strumenti e
vedo ben chiaro che siamo sui 15-16°C.
Durante la discesa incontriamo le prime cattedrali di roccia già tra i venti e i
trenta metri di profondità, più che altro grandi macigni isolati o veri e propri
panettoni con alla base fenditure e cunicoli impenetrabili, che consentono alla
cernia bruna di raggiungere, a volte, la vecchiaia; una grossa cernia ci
accoglie quasi fiduciosa nei nostri confronti ma poi scompare nei meandri del
suo castello, lasciandoci assaporare il gusto di quel momento che segna l’inizio
della perlustrazione attenta sul fondo.
Lo sguardo puntato su ogni dove scivola su quella ricca fauna incrostante,
coloratissima, fatta di alghe calcaree, briozoi, madrepore ...
Le gorgonie iniziano solo sotto i 35 metri e hanno rami folti e tozzi, adatti
per contrastare le forti correnti del luogo. La limpidezza dell’acqua e il
giallo delle prime gorgonie ci fa resistere bene al freddo tanto che quasi non
lo si percepisce più, consolati dal fatto che faremo decompressione al
calduccio.
Inizio a
scattare: benthos e foto statiche si susseguono cercando sempre angolazioni e
soggetti diversi. Il pesce si nota poco, almeno in profondità. Ma l’ambiente è
bellissimo: la vita esplode ovunque.
Guardo tutt’intorno cercando di abbracciare con gli occhi ampi spazi per
cogliere la morfologia di massima di questo bel fondale, dove gli scogli sono
raggruppati in modo vario e si alternano con corridoi di sabbia e ghiaia chiara.
Scogliere come questa sono la norma in questi fondali, ma la variabilità degli
ambienti, creati da rocce metamorfiche che caratterizzano la parte sommersa
delle ultime propaggini dell’Aspromonte, è straordinaria. Ancora oggi, dopo
tante immersioni, provo sensazioni indescrivibili nell’osservare quel regno che
non appartiene a noi, animali terrestri, ma che tanto ci intriga…
Compiendo un
percorso piuttosto lungo, approfittando della pausa concessa dalle correnti, mi
spingo a sfiorare i 50 metri di profondità, seguito dai miei fedeli compagni
d’immersione. Ognuno osserva nel raggio d’azione del suo sguardo e ci si
mantiene a distanza senza disturbarsi.
Si condivide un incontro ogni tanto: una murena che fa capolino dal suo rifugio,
uno scorfano immobile sul fondo o una torpedine nascosta in un anfratto. Molte
le uova di gattuccio ormai vuote deposte da questi pesci cartilaginei quasi
invisibili, sempre nascosti in cunicoli inespugnabili; queste uova, quasi sempre
attaccate alle gorgonie, sono ora coperte da alghe e briozoi, rappresentando
substrato ideale alla vita anche con la loro esigua superficie colonizzabile.
Il tempo di
fondo corre via più veloce del previsto ed è ora di risalire: gradatamente
iniziamo il percorso di rientro verso la costa lasciandoci alle spalle quel che
resta di un vero paradiso, ma tutto posso pensare meno di trovare una serie di
sorprese alle profondità più esigue.
All’orizzonte, col capo rivolto in alto, dove l’acqua è offuscata dallo sbalzo
termico, vedo una sagoma grande e grossa. Si, è proprio lui: un maestoso
trigone! Ma che dico: ce ne sono due, nuotano
lenti, vicino alle rocce del fondo, sembra che volino.
Mi avvicino piano, abbassato sul fondo, ma loro si accorgono della mia presenza
e aumentano il ritmo del nuoto. Li seguo per un po’ ma non arrivo a tiro di foto
e riesco appena a guadagnare uno scatto prima dell’addio, ma si tratta di una
foto ricordo, niente di più.
Mi son gustato la scena, penso, ed ho pieno l’animo di quei magici istanti; poi
mi consolo con un banco di pesci a strisce di discrete dimensioni: sono le
salpe, sempre tutte insieme appassionatamente, che alternano un nuoto lento a
mezz’acqua con il brucare l’erba del fondo, piegandosi e riflettendo la luce del
sole con i fianchi dorati. Poi un’altra sorpresa: le tanute, di taglia media ma
numerose; e poi, ancora più su, grandi occhiate che sfrecciano tra gli scogli
come non ne vedevo da tempo: quanto pesce…
D’improvviso,
venti metri avanti a me, intravedo due sagome familiari acquattate sul fondo.
Fermo con un gesto della mano gli altri sub che mi seguono e mi avvicino molto
lentamente: una coppia di trigoni in amore, uno accanto all’altro, sono fermi
sul fondo col capo rivolto verso una rassicurante parete di roccia. Guadagno un
metro alla volta e finalmente arrivo a tiro di foto.
L’emozione accelera un po’ la mia frequenza respiratoria e temo che qualche
bolla in più possa intimorire gli splendidi animali. Ma riesco a scattare,
faccio persino due scatti prima che uno dei due pesci, nervosamente, scatti via:
colgo l’attimo dello sbattito delle pinne, un attimo fuggente, difficile ma
imperdibile.
Ce l’ho fatta…
Mi dedico
quindi all’esemplare rimasto, cercando di guadagnare qualche altro scatto. Poi
anche lui, sotto i miei occhi increduli per quanto sto vivendo, si solleva e si
gira per andare: ed io scatto ancora, e lo colgo alla partenza, quando inizia a
nuotare come se volasse, simile a un grande aquilone ondeggiante, e la sabbia
aderente al dorso scivola via veloce.
“Ecco fatto” -
penso, dopo una vita di tentativi e appostamenti.
Riprendo
consapevolezza del fatto che sono sott’acqua e inizio a spostarmi verso quote
più adatte a una sana decompressione, finché sono in tempo.
Guardo con stupore l’andirivieni delle occhiate e noto che alcune son proprio
grosse. Che bello questo mare, vien voglia di fare tutta un’altra immersione tra
i 10 e i 20 metri di profondità, sballando i tempi di decompressione, ma non si
può.
Il bello dura poco e devo avvicinarmi ancora alla superficie: cerco sempre di
scovare qualcosa nella penombra creata dagli scogli più grandi e devo dire che
tutto, anche qui, soddisfa la mia curiosità di subacqueo.
Mi infilo infatti in alcune grotte create
dall’accatastamento di grossi macigni, dove la morfologia più che varia e il
colore degli asteroides abbinato a quello di spugne
celesti e bianche, illuminate dai raggi che filtrano dalle numerose fenditure,
mi fanno gioire anche in questi ultimi istanti.
Un improvviso e violento getto di corrente montante,
fredda e poco gradevole, ci costringe
a ripararci dietro le rocce per finire tranquilli l’immersione.
La mente mi torna ai trigoni, quei grossi pesci cartilaginei dal nuoto elegante
e dall’aspetto maestoso e possente, pesci che possono raggiungere anche i 2,5
metri di lunghezza e i due metri di larghezza.
Quella che inseguo da sempre è la specie forse più comune, la
Dasyatis pastinaca, abituata a vivere tra i
15 e i 60 metri di profondità, di solito a contatto col fondo sabbioso dove si
seppellisce coprendosi di sabbia. Tuttavia, nel periodo degli amori, questa
specie si trova sovente allo scoperto e sui fondali rocciosi all’imboccatura
dello Stretto di Messina ha tra l’altro difficoltà a seppellirsi completamente
nel sedimento, risultando più facile da osservare, a debita distanza, durante i
suoi spostamenti in cerca di un partner. Questo animale ha una potente arma
difensiva: un doppio aculeo disposto sopra la coda, seghettato, con una potente
cardiotossina che può provocare danni seri al malcapitato che ne venisse
colpito.
Ma l’eventualità di restare vittima di una pastinaca è del tutto remota e solo
un tentativo di cattura ne suoi confronti provoca reazioni di difesa, ovviamente
giustificate …
Il trigone
pastinaca si nutre di pesce azzurro di piccole dimensioni, tipo alici o sardine,
ma anche di piccoli crostacei e di molluschi cefalopodi. Per esperienza
personale, a meno che l’animale non si abitui progressivamente alla presenza di
subacquei in luoghi circoscritti, accettando l’approccio ravvicinato, il trigone
risulta timido e poco socievole, schivo e difficilmente disponibile nei
confronti dell’uomo immerso. Un pizzico di fortuna consente un avvicinamento
solo quando l’animale è sepolto sul fondo e pensa di non essere visto. La sua
notevole gobba e i grandi occhi che sbucano dal fondo tradiscono il suo
mimetismo quasi perfetto, perlomeno agli occhi del subacqueo esperto, e
permettono di osservare da vicino uno tra gli animali più belli e strani che il
mare ospita nel suo grande spazio sommerso.
Quante
emozioni, quanti momenti belli, che sapore e che profumo intenso questo
Mediterraneo dello Stretto.
La Natura, di certo, avrà il sopravvento su chi non saprà rispettarla, su chi
non si sente parte integrante di essa. L’uomo deve capirlo: non c’è alternativa.
A volte mi domando perché tendo a concludere i miei racconti con una morale: poi
mi rispondo che ciò nasce spontaneo dal fatto che non si può restare
indifferenti al cospetto della vita, quando per esempio si osserva la vita nel
mare in un luogo come lo Stretto.
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