Sciròccu, malanòvi e piscistòccu sono le
antiche tipiche specialità messinesi.
Dello sciroccose ne
parla nella pagina
venti , di
malanòvese ne parla nella pagina
Messina mavara, non ci resta
altro, quindi, che parlare di
piscistòccu.
Detto anche
stoccafisso, in italiano, deriva
dall’olandese stocvisch formato da
stoc (bastone) e
visch (pesce), cioè pesce seccato su bastoni.
In messinese è diventato vischstoc,
ossia piscistòccu o
pesce stocco, o, più confidenzialmente
stocco, e non mi stupirei se le generazioni
future lo chiamassero stocky.Non a caso si dice che un individuo è un
piscistòccu quando è alto e magro, che in messinese si dice
siccu.Abbiamo
appurato, perciò, che stiamo
parlando di un pesce secco di origini nordiche.
Si tratta infatti del merluzzo
(Gadus
morhua),che, pescato sulle coste della Norvegia,
veniva privato di testa e parte di interiora e infilzato su bastoni veniva
seccato sui pennoni dei velieri, per poi essere usato dai marinai stessi
come riserva alimentare e come merce di scambio.
(Il merluzzo si pesca solo nel
Nord Atlantico, quello che in dialetto si chiama mirrùzzu
è invece il nasello; ancora confusione!)
Si trovano tracce di questi scambi anche nei porti più importanti d’Italia,
come Genova, Livorno e Venezia, ma in nessun posto come a Messina il
pescestocco è diventato protagonista in cucina. Qui il fetu (puzza) è
diventato ciàuru (odore) trasformando un
pesce puzzolente in profumati piatti tipici della tradizionale cucina
popolare.
Una volta veniva considerato il mangiare dei poveri,
difatti una delle versioni culinarie è intitolata a
carrittèra, perché preferito dai carrettieri, che in fondo erano
i camionisti di oggi (i TIR
erano quei carri trainati da quei mastodontici buoi che si distinguevano dai
rinoceronti solo perché avevano due corna).
Adesso non è più il cibo dei poveri perché ci vuole un
carretto di soldi per comprare quello
buono.
Dopo l’ammollo,
sulla cui tecnica artistica devo documentarmi meglio, si passava all’arte
culinaria vera e propria che sfruttava la fantasia dei geni ereditati in
varie epoche storiche ed il profumo di prodotti locali come
l’olio, il prezzemolo o l’afrodisiaco cappero di Salina. Nascevano così dei piatti altamente nutritivi e gustosi che per molte
generazioni hanno sostentato e deliziato i nostri padri, le nostre madri e
tutti i loro conoscenti.
Se cucinato come Dio (Nettuno) comanda
ed accompagnato come Dio (Bacco)
pretende, il pescestoccoa ghiòtta può essere considerato un
piatto alla pari con ben più nobili e sofisticate ricette della nostra
cucina.
Oltre che a ghiòtta lo si può gustare
a carrittèra, o più semplicemente
in biàncu, o addirittura crudo
a nzalàta accompagnato da cipolla e
pumadurèddi a scocca.
Per mangiarlo crudo, però, bisogna superare la repulsione per l’inevitabile
puzza tipica, ma fatto ciò il palato godrà molto più
di quanto non abbia sofferto l’olfatto.
Leggendario è
divenuto il pescestocco di don Fano
il cui profumo sembra avvertirsi ancora oggi in quella
Piazza di Messina che tutti chiamano
don Fano nonostante nessun sindaco
gliela abbia mai intitolata; pochissimi sanno che la Piazza si chiama
Largo Risorgimento. Se dovessi candidarmi a sindaco della città, metterei questo
argomento nel mio programma, tenendo conto del fatto che di Risorgimenti a
Messina ed in Italia ce ne sono stati tanti, ma di
don Fano ce n’è stato uno solo, e poi, la gente continuerebbe
comunque a chiamarla Piazza don Fano per
questioni affettive e perché suona meglio.
Anche a San Pitrùzzu all’Opira, nei
pressi del Duomo, si mangiava un ottimo pescestocco fino a poco tempo fa.
Mi dispiace che i giovani di oggi non abbiano potuto provare quegli
autentici pezzi di maestria nati dietro i fornelli di quelle vecchie cucine
economiche casalinghe, ma se vogliono
sono ancora in tempo ad avvicinarsi a quei gusti mangiandolo cucinato da
qualche nonnina all’antica..
Stavo
dimenticando il pezzo forte del pescestocco, cioè le
trippette (vintrùzzi),
così teneramente chiamati perché diversamente morbida e dolce è la loro
carne. Si tratta delle interiora del pesce
secco che minuziosamente pulite e sapientemente arrotolate e farcite,
vengono poi cucinate a ghiòtta e
costituiscono, penso, un piatto unico al mondo per la particolare bontà del
risultato.
Voglio spendere ancora qualcosa a favore del pescestocco in genere.
Tutti sapranno che Garibaldi, dopo aver liberato lo Stivale dall’oppressione
borbonica, si ritirò in buon ordine a Caprera per riposarsi, ma non tutti
sanno che come ricompensa di ciò che aveva fatto chiese
solo una balla di pescestocco.
Non ci sono notizie certe, ma io non ho alcun dubbio che il
Peppino nazionale, che pure aveva girato
due mondi, passando per Messina con i picciotti,
abbia avuto il piacere di assaporare quella delizia del palato.
Apprezzamento al baccalàro
Apriamo ora una
piccola parentesi su una sottospecie del pescestocco che, pur non essendo
una specialità cittadina, ha qualcosa di interessante almeno dal punto di
vista lessicale.
Parente stretto
del pescestocco è il baccalà o
baccalàru, che deriva dallo spagnolo
bacalào, che a sua volta deriva
dall’olandese Kebeljauw.
Anche in questo caso si tratta del solito pesce nordico, il
merluzzo, che veniva
seccato e salato per la conservazione e poi
scambiato, soprattutto sulle coste siciliane, con il sale che serviva ai
nordici per produrre altro baccalà.
Anche questo veniva importato a Messina, come nei più grossi porti italiani
(anche se può sembrare inverosimile, questa città
ha avuto un porto florido e ricco per moltissimo tempo). Però,
mentre a Livorno, per esempio, il
baccalà diventava una specialità, a Messina veniva relegato quasi
esclusivamente a far parte della tradizionale cena della vigilia di Natale
in cui ancora oggi si usa consumarlo fritto. Sporadicamente lo si ritrova
cucinato in umido o arrosto.
Il pescestocco non gli fece mai prendere piede,
era come se due galli dovessero stare nello stesso pollaio.
Non a caso si dice che un individuo è un baccalàru
quando oltre ad essere alto e magro è anche stupido e senza qualità. Ciò
basta a dare la misura della differente importanza attribuita allo stesso
pesce conciato in modo diverso.
Pescestocco e
baccalà hanno in comune non solo l’origine ma anche la puzza.
Però le due puzze non sono uguali, difatti, mentre il primo fa solo puzza,
il secondo ne ha una particolare che assomiglia vagamente a quella che
potrebbe fare la parte più intima di una donna se l’igiene dovesse essere
poco poco trascurata.
Forse per questo, nel vecchio popolino, si andò associando la parola
baccalàru anche a quel bellissimo
triangolo foderato di peluche di cui ogni donna
va giustamente orgogliosa e di cui il maschio si interessa.
C’è da considerare poi che, secondo vecchi modi di dire, è sufficiente un
solo elemento della sua fodera per tirare più di una pariglia di buoi o più
di una corda di bastimento.
Questo semplice accostamento ideale può giustificare un apprezzamento al
baccalaro, non certo per le sue
caratteristiche in culinaria (e qui potremmo rientrare nello zappato).